A sedici anni con Brecht
C’è un rischio: quando penso al teatro penso alle luci di un palco, ai costumi, alle scenografie, agli attori che urlacciano. Ma le cose che scopro ora non hanno a che fare con questo...
A sedici anni scopro il teatro. La mia prima “maestra” è Ornella. Non è un’insegnante di scuola ma un’animatrice teatrale che conduce laboratori per il Palio Studentesco. Udine è una piccola città del Nordest. Si trova in Friuli e io sono nato qui, nel posto che Pasolini chiamava "terra di temporali e primule”. Ogni mercoledì e sabato rimango su, dopo scuola, per fare un po’ di teatro.
Con Ornella lavoriamo in gruppo, saremo una trentina. Stiamo in piedi, facciamo un cerchio, seguiamo gli esercizi. Descriverli con precisione non è semplice. Ricordo uno di questi: si sta in silenzio e si osserva gli altri. L’obiettivo è dire un numero arrivando a cinquanta. Uno per volta, senza che qualcuno dica a un altro quando farlo. Se due voci si accavallano si torna a zero. A guardar da fuori potrebbe sembrare una cosa inutile, un passatempo, una ricreazione. E invece scopro un sacco di cose mentre il tempo scorre.
C’è un rischio: quando penso al teatro penso alle luci di un palco, ai costumi, alle scenografie, agli attori che urlacciano. Ma le cose che scopro ora non hanno a che fare con questo. Hanno a che fare con altro, per esempio osservare in silenzio qualcuno e comprendere il momento preciso in cui dire qualcosa senza accavallarsi.
Succedeva che a un certo punto, dopo aver fatto un bel po’ di esercizi in gruppo, solo dopo, passavamo alla narrazione. Per farlo serviva altro tempo, libri, testi e ancora testi, che Ornella ci portava in sala. Ma non sapevamo quale avremmo scelto per lo spettacolo di fine anno. L’obiettivo era uno: trovare buone storie da condividere con il pubblico. Solo che poi trovavi in mano un testo di Bertolt Brecht, Peter Weiss o Sarah Kane; e per capire se erano buone storie serviva concentrarsi. Allora - finiti i compiti di scuola - preparavo qualcosa di caldo da bere, una manciata di biscotti e mi concentravo per qualche ora. All’inizio del Duemila non c’erano le notifiche: niente gruppi WhatsApp, niente video-chiamate Zoom, niente fotografie su Instagram. Solo qualche squillino alla compagna di Classe che mi piaceva. E poi rimanevo un po’ lì con Brecht. Che palle, dirai tu.
Sono passati quasi vent’anni e penso che quel tempo mi sia servito. A cosa? Vorrei dirtelo qui, mi sembra un luogo adatto. Non adesso, però. Mi chiamo Andrea, ho trentacinque anni e mi occupo di narrazione. Lo faccio per lavoro: scrivo progetti, conduco laboratori, creo spettacoli ed eventi di comunità. Sono percorsi di mediazione artistica dove il teatro e le nuove tecnologie servono a comprendere altre cose, come “lo scorrere del tempo, le persone e le nuvole” (Perec).
Spero di averti ancora qui per spiegarti di cosa sto parlando. Ci sarai?
/// Ancora una cosa: l’immagine che vedi sopra l’ho scattata in Danimarca nel 2022