Al bar San Callisto
A Roma non bastava immaginare un settore, quello teatrale. Serviva pensare in dettaglio seguendo il consiglio di Cechov, un altro maestro del Novecento: "guarda da vicino"...
Il sole è tiepido e il tavolino di legno ha una scritta in bianco e rosso: Peroni. Giro lo sguardo e ci sono alcune siepi che circondano i tavolini. Io sono seduto qui. Al San Callisto mi prendo il caffè con gelato, scrivo appunti su un taccuino, guardo gli abitanti di Trastevere chiacchierare. A pochi metri c’è la libreria di Minimum Fax e il Teatro Belli. In questa zona ci vengo ogni settimana, nel 2010, perché sto seguendo un corso di drammaturgia promosso dall’Accademia Nazionale Silvio d’Amico di Roma. Accade che c’è un gruppo di giovani autori, noi. Scriviamo testi, li collaudiamo, e poi li facciamo portare in scena dagli attori della Silvio d’Amico alla fine dell’anno accademico. Insieme a Trastevere i luoghi che frequento sono il Pigneto e Casal del Marmo.
Al Pigneto vado in un micro teatro tenuto da due artisti della scena romana, Elvira e Daniele; per loro sto scrivendo un testo che si chiama “Il solito show” e insieme con me ci sono anche Francesca e Sonia per la scrittura. Abbiamo anche un tutor che si chiama Attilio, e quando vogliamo orecchiare i nostri testi ad alta voce, prendiamo lo zaino e ci spostiamo da Necci, mentre gli attori rimangono in sala prove.
A Casal del Marmo invece mi occupo della conduzione di alcuni laboratori per una cooperativa che fa teatro con i ragazzi del Carcere minorile. Qui nel 1975 è stato ospite Pelosi, il diciassettenne accusato di aver ucciso Pasolini. In carcere, nel 2010, lavoriamo sulla storia di “La vita è sogno” di Calderon de la Barca. Anche se qui dentro c’è poco spazio per sognare. Succede che qui, un giorno arrivi dentro e metà dei ragazzi è in punizione perché di notte hanno fatto prendere fuoco a una cella. Un’altra volta accade che, in teatro, mentre facciamo un po’ di esercizi e proviamo lo spettacolo, le guardie portano via il ragazzo più attento perché “ora ci sono i colloqui con gli educatori”. Un’altra ancora il laboratorio salta perché i “ragazzi devono sbollentare gli spiriti” ed è meglio portarli fuori a giocare a calcio. Il teatro? Poco sbollenta.
Questa è la mia Roma. Dopo l’esperienza a Venezia e il viaggio a Buenos Aires ero ripartito alla scoperta della Capitale. Volevo iscrivermi a un Master dell’Università Sapienza dedicato al Teatro nel Sociale: l’anno prima avevo incontrato il direttore didattico, Michele Cavallo, in uno dei weekend di laboratori che venivano fatti a Villa Lais nel quartiere Tuscolano. Lì avevo seguito per qualche ora le attività, da “uditore”, per comprendere cosa veniva proposto. La sessione si chiamava “Il lavoro del conduttore su se stesso”: praticamente ogni partecipante conduceva un esercizio condividendo il proprio approccio e la gestione del gruppo. Il direttore osservava il lavoro e alla fine di ogni sessione il gruppo si confrontava sulle proposte fatte e sul proprio approccio. Il titolo di quella sessione era decisamente esplicativo; in teatro c’è un maestro del Novecento chiamato Stanislavskij che intuisce quanto sia importante prepararsi al lavoro teatrale. Così scrive due tomi chiamati “Il lavoro dell’attore su se stesso” e “Il lavoro dell’attore sul personaggio”. Chiaro che la figura centrale sia chi agisce e racconta, cioè l’attore. Ma questo include tutti coloro che agiscono e raccontano, non solo gli attori. Indubbiamente il lavoro del conduttore su se stesso seguiva qualcosa di molto vicino a ciò che mi interessava e avrei seguito con gusto quel percorso.
Ma proprio l’anno successivo a Roma, alla fine, il Master non parte per mancanza di iscrizioni. Così prendo un po’ di tempo per costruirmi, in autonomia, un percorso mirato e trovare altre occasioni di crescita.
Abitavo davanti Santa Croce in Gerusalemme, vicinissimo a San Giovanni in Laterano. I miei coinquilini venivano tutti dal Sud, dalla Ciociaria, dalla Campania e dalla Sicilia. Eravamo ventenni e ci volevamo bene. I gesti d’affetto si misuravano anche a cena, dal cibo condiviso con gli altri. E noi, di cibo condiviso, tra guanciali e pecorino, non ne avevamo mai fatto a meno. Stefano era iscritto a Giurisprudenza ma preferiva fare qualcosa di più entusiasmante, per esempio il Pubblico (pagato) a “Forum” su Rete Quattro. Erika invece preferiva fare il Pubblico (da casa) di “Uomini e Donne”. Poi Cesare, giovane postino, e Orazio, studente di storia. Infine io, che il teatro volevo impararlo a fare. Una bella compagine generazionale.
Mi ero chiesto come indirizzare il mio percorso, non bastava immaginare un settore, quello teatrale, ma serviva pensare in dettaglio seguendo il consiglio di Cechov, un altro maestro del Novecento: “guarda da vicino”.
In quell’anno avevo guardato da vicino due cose: come scrivere storie per il teatro e come condurre laboratori in contesti sociali. Entrambe mi facevano stare comodo, ma non vedevo in Roma la mia “casa”. Volevo comprendere da vicino un modo di far teatro che non riguardava soltanto lo spettacolo e, proprio negli ultimi mesi di permanenza, un incontro è stato decisivo nel cambio di rotta.
Vacis lo avevo conosciuto a Venezia durante l’università. Lui era torinese, si occupava da tempo di narrazione teatrale e nel 2010 era sceso a Roma per presentare un documentario chiamato “La paura siCura” alla Casa del Cinema. Il film parlava di città e della convivenza tra le persone nelle città. Parlava di paure.
Avevamo preso un caffè per confrontarci. Mi aveva parlato anche di una scuola estiva che stava organizzando in Piemonte, ad Alessandria, vicino Torino, nel teatro in cui era direttore. Una scuola con diversi formatori: Fausto Paravidino, Cristina Pezzoli, Marco Paolini, Alice Rohrwacher, Giorgio Gallione… Vacis mi racconta che tutto il lavoro che dagli anni Ottanta aveva portato avanti con il suo gruppo - Teatro Settimo - non era solo “far spettacoli” ma creare “ambienti” di relazione. Il lavoro, quindi, era fatto di molte cose: l’animazione teatrale nelle periferie e nelle scuole, la direzione di festival diffusi, la progettazione di percorsi che usavano il teatro come strumento di trasformazione sociale.
Mi ricordo una frase che disse prima di salutarmi e che coincideva con il mio sentimento di ricerca: “Ormai facciamo qualcosa che chiamiamo teatro per convenzione, ma dovremmo cominciare seriamente a pensare di dargli un altro nome, o altri nomi. Perché il teatro è qualcosa che sta alla radice di quello che facciamo, ma ormai è un pezzo che dentro al teatro non riusciamo più a starci”.
In effetti era un po’ così, di tutta quella esperienza romana, la cosa che aveva provocato in me delle domande, per davvero, non era scrivere spettacoli o guardare capolavori del teatro contemporaneo nei festival più cool della città. Ma scoprire come fare teatro in quel carcere minorile, lontano dalle bolle culturali della città. Scoprire come un laboratorio e uno spettacolo potevano essere uno strumento di cambiamento per quei ragazzi che non avevano nulla da perdere. Insomma, di tutto quell’anno, mi portavo dietro questa consapevolezza: solo dentro il teatro non riuscivo più a starci dentro.
/// L’immagine che trovi all’inizio l’ho scattata a Roma nel 2021