Comprendere chi ho davanti
Nel Master di Teatro Sociale a Roma le docenze potevano essere pratiche e non solo teoriche. Nel 2015 le mie lezioni si chiamavano “Drammaturgia sociale”. Prometto di spiegarti bene cosa vuol dire…
Siamo nel 2015. Apro la mia casella di posta elettronica e leggo un messaggio: “Caro Andrea, sono Michele Cavallo il direttore del Master in Teatro Sociale dell’Università Sapienza di Roma…”
La mail proseguiva con un invito, tenere alcune ore di docenza all’interno del Master. Avevo conosciuto Cavallo qualche anno prima, lo avevo rincontrato a Roma invitandolo a far scoprire ai suoi allievi uno dei miei laboratori di educazione alla scena e scrittura teatrale (EduScé LAB) nella sessione romana del progetto.
In un master legato al teatro le docenze potevano essere pratiche e non solo teoriche. Le mie lezioni si chiamavano “Drammaturgia sociale”. Prometto di spiegarti bene cosa vuol dire, mi serve un po’ di tempo…
Il primo obiettivo era comprendere chi avevo davanti, il Master voleva essere un allenamento alla conduzione di gruppi (studenti delle scuole, migranti, persone con disabilità, utenti psichiatrici) tramite le tecniche del teatro. Chi si era iscritto al Master aveva già seguito altre formazioni nel campo artistico (autori, registi, attori - autrici, registe, attrici) e nel campo sociale (educatori, operatori, psicologi - educatrici, operatrici e psicologhe).
Una cosa importante da condividere è che le tecniche da poter utilizzare in un laboratorio teatrale sono infinite. Si trovano cataloghi, manuali e tanti siti web. Ma la differenza è il tuo punto di vista, la rielaborazione di quegli esercizi e l’obiettivo che vuoi raggiungere con il gruppo sociale che conduci. Io avevo avuto la fortuna di sperimentare sulla mia pelle molti esercizi e mi ero costruito un personale catalogo fatto di svariati esercizi pratici.
La “drammaturgia sociale” (o ancora meglio la “drammaturgia nei contesti sociali”), quindi, si compone di più elementi. Di fatto significa scrivere, sviluppare una creazione collettiva, partire dal gruppo e rimanere in ascolto delle identità di quel gruppo, raggiungere non solo gli obiettivi di un progetto ma anche accendere l’interesse delle persone che seguono un percorso. Ogni laboratorio diventa così una storia collettiva, il manifesto di una comunità specifica e non solo di un singolo autore. L’autore, quindi, è chiamato qui a essere “mediatore”. In altri termini, lavorare con il teatro sociale significa lavorare con la mediazione artistica. Dare importanza al percorso laboratoriale e non solo al risultato finale (lo spettacolo o l’evento di restituzione aperto al pubblico) facendo emergere bisogni sociali. Per esempio individuare questioni sommerse, contrastare solitudine o emarginazioni; o semplicemente promuovere il diritto all’espressione pubblica grazie all’esperienza creativa.
Nelle docenze al Master suddividevo i miei incontri così: una parte era dedicata al racconto dei miei progetti teatrali come EduScé LAB o Afropolitan LAB (in progettese potremmo chiamarli “case study” ovvero analisi di progetti esistenti), passavo poi ad alcuni esercizi pratici condividendo il mio approccio alla conduzione di gruppi e alla creazione collettiva/drammaturgia sociale, e infine - insieme al direttore didattico - lavoravo sulle attitudini di ogni partecipante del Master e sui loro diversi interessi provando a buttar giù qualche riga su un progetto di teatro sociale che loro potevano ideare e sviluppare.
Quello che accadeva era questo, per circa un anno e mezzo gli allievi ricevevano una formazione fatta di teoria e pratica (teatro per ragazzi, drammaturgia sociale, drammaterapia, esperienze sul campo) e insieme ai docenti delle materie didattiche (noi) incontravano anche un po’ di ospiti con momenti più brevi per la condivisione del proprio percorso tra teatro e sociale: c’era Gabriele Vacis e la pedagogia della Schiera, Ezio Bosso e il talento musicale a stretto contatto con la propria disabilità, Armando Punzo e il suo lavoro teatrale fatto in carcere a Volterra, e così via…
Alla fine di questo percorso gli allievi potevano farsi una idea più precisa di cosa volesse dire fare progetti di teatro in contesti sociali, grazie anche alla supervisione di Cavallo con diversi momenti chiamati “Il lavoro del conduttore su se stesso”. E ogni ciclo del Master alla Sapienza si concludeva con una scuola estiva di circa una settimana. Un ritiro formativo in qualche cascina umbra o residence dove si poteva dormire, mangiare e fare lezione.
Negli anni a seguire il gruppo di lavoro stabile del Master (Michele Cavallo, Riccardo Brunetti, me e ancora altri come Cristina Barbuti, Sandra Albanese, Roberto Sestilli) ha portato avanti questa esperienza anche all’Università Europea di Roma, attivando il Corso di perfezionamento in Teatro Sociale e successivamente il Master in Arti Sociali.
Avevamo trovato una formula specifica, “imparare viaggiando”. Così il Master nelle sue ultime edizioni vedeva weekend formativi itineranti non come chiusura dell’anno ma in ogni sua tappa a Roma, Torino, Firenze, Ferrara, Milano, Bari... Per esempio a Torino potevi scoprire insieme alle nostre lezioni anche quelle di docenti ospiti come Laura Curino e di realtà sociali come il Gruppo Abele, il Sermig Arsenale della Pace o il Centro Etnopsichiatrico Frantz Fanon. O a Milano le esperienze artistiche per le nuove generazioni del Teatro del Buratto o il lavoro che PuntoZero Teatro portava da anni dentro il carcere minorile Cesare Beccaria, e così via… Ci sembrava che la formula “imparare viaggiando” (learning by travelling) fosse un’ottima variazione di “imparare facendo” (learning by doing) utilizzata in buona parte dei progetti innovativi in Italia.
Quale sbocco professionale veniva prefigurato con questi percorsi? Vediamo un po’ … Potremmo dire: l’operatore di teatro sociale, il mediatore artistico, il coordinatore di progetti artistici in contesti sociali, l’autore in percorsi teatrali di comunità. Tutte figure professionali ibride che di fatto si potevano sperimentare “facendo” ma che difficilmente potevi sperimentare solo “studiando”. Per questo il programma didattico vedeva molte testimonianze dirette, professionisti che si sono rimboccati le maniche e hanno iniziato a “fare teatro in contesti sociali ed educativi”. Fare insieme, questo condividevamo con gli studenti del Master.
Occuparmi della progettazione didattica e di queste docenze universitarie ha fatto nascere in me diverse domande e una manciata di buoni propositi su come lavorare nel futuro. Primo fra tutti: realizzare progetti artistici di comunità cercando di comprendere chi avevo davanti. E da lì tutto sarebbe venuto da sé…
Ascolta, prima di chiudere, vorrei condividere un pensiero con te. In una delle prossime occasioni mi piacerebbe inviarti delle domande scritte e leggere io - grazie alle risposte - alcune tue storie, anche piccolissime. Giustamente potresti chiederti, ma per quale motivo?, e io potrei risponderti: bè, intanto per il piacere di leggere qualcosa di tuo e poi, chissà, se lo vorrai, ma solo se lo vorrai, potrebbe essere una piccola parentesi per qualche racconto collettivo di Precise storie. Sarebbe un esempio di creazione collettiva. Anche se a distanza.
Va bene, dai, ti saluto, qui oggi siamo andati un po’ per le lunghe. Fammi sapere se ti farebbe piacere rispondere ad alcune semplici domande e te le invio, sono domande che mi sono portato dietro in alcuni progetti e a cui sono particolarmente affezionato.
Basterà fare “rispondi” a questa mail (se stai leggendo questa storia dal tuo indirizzo mail) scrivendo “Va bene, ci sto!” e la tua risposta mi arriverà direttamente. Oppure se ti è più comodo, quando vorrai, basterà scrivermi a questo indirizzo: precisestorie@andreaciommiento.it.
Mi sembra davvero tutto, per ora. 😊
/// L’immagine che vedi all’inizio è stata scattata nel 2016 al Centro Culturale Ex Birrificio Metzger di Torino. Quelli che vedi sono i partecipanti di una delle edizioni del Master. Come scrivevo, anche se il Master aveva sede a Roma, prevedeva diverse sessioni didattiche in giro per l’Italia.
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