Fare le cose con gusto
Qui a Buenos Aires il teatro sembra l’unica maniera per non rimanere soli nelle proprie case. E in Italia, oggi? Cioè, ieri. In quegli anni Duemila. Era fatto della stessa sostanza di questi sogni?
La scena inizia così: mi ritrovo in un volo Alitalia direzione Buenos Aires. Accanto a me c’è un medico settantenne che scrive il suo numero sul foglietto di carta e mi dice: “Por qualquier cosa, llamame sin problema!”.
Gracias, muchas gracias. Lo spagnolo è una lingua che studiavo già da un po’: alle superiori e all’università mi ero fatto una scorpacciata di lessico ispanico, avevo in tasca la grammatica, diverse ore di conversazione in aula e qualche ricordo di film in lingua. Non potevo che rispondere così: “Gracias, muchas gracias”.
Erano passate più di dieci ore e insieme a quel medico avevo parlato di tutto, intervallando le conversazioni con qualche pasto e qualche film guardato nel piccolo schermo davanti a me in volo.
Buenos Aires l’avevo conosciuta grazie alla mia tesi di laurea. Ma mai di persona. E la fine del mio periodo universitario a Venezia, nel 2009, poteva conciliare l’idea di un “mese sabbatico”. Mi ero dato una missione, scoprire i luoghi e le persone che avevo studiato per la mia tesi. E la mia tesi era interamente dedicata al teatro argentino. Tieniti forte: avevo scritto una tesi dedicata al Teatro Abierto, un movimento di resistenza culturale - con oltre trentamila seguaci - pronto a contrastare la Dittatura militare. Quella era stata la “casa” dei più importanti autori argentini degli anni Ottanta, poi diventati “maestri” della nuova generazione di autori che avevo conosciuto anche in Italia.
Io - quella tesi - l’avevo scritta passando le notti a tradurre i testi dallo spagnolo all’italiano, perché in Italia, i libri che mi servivano non erano pubblicati. E me li facevo arrivare grazie all’intercessione del Dipartimento di Letteratura Latino Americana della Ca’ Foscari. Avevo scelto quel tema perché la mia relatrice continuava a dirmi: “parti da una necessità”.
La mia relatrice c’insegnava Regia teatrale, lei era una regista d’opera lirica che prima di fare l’opera si era formata alla Sorbonne di Parigi e poi con Ariane Mnouchkine, un’altra “maestra” teatrale del Novecento che aveva contributo a creare negli anni Settanta un luogo pazzesco chiamato Cartoucherie, dove l’idea di teatro coincideva perfettamente con quella di casa, per gli artisti e per gli spettatori.
Così, insomma, la mia relatrice (e in qualche modo potremmo dire anche la Mnouchkine) voleva che partissi da una necessità e non solo da una ordinaria scrittura di tesi universitaria. Avevo cercato di seguire anche il consiglio di Umberto Eco che nel suo libro-cult Come si fa una tesi di laurea diceva di fare le cose con gusto e che anche una tesi può essere vissuta “come un gioco, come una scommessa e come una caccia al tesoro”.
Per cui il gioco era fatto: comprendere se il teatro era uno strumento necessario. E l’esempio del Teatro Abierto mi aveva rincuorato: sì, il teatro era uno strumento necessario. Per contrastare addirittura la violenza di una dittatura. Lo so, sembra difficile a credersi.
Buenos Aires è un po’ Italia; il quartiere più ricco si chiama Palermo Soho; il sessanta per cento degli argentini ha origini italiane; i ristoranti e le pizzerie sembrano ambientati nell’Italia degli anni Cinquanta. Io scopro una città, sì, con molti teatri, e spettacoli, e festival, ma insieme a questo scopro il DNA italiano di una metropoli da quindici milioni di abitanti.
Scopro poi che da dodici anni, ogni venerdì sera, nel quartiere La Boca, il luogo dove è cresciuto Maradona, c’è un teatro che si chiama El Galpon de Catalina e che racconta la storia dell’Argentina portando in scena artisti e vecinos (ovvero il vicinato, gli abitanti). Scopro che c’è un teatro-appartamento chiamato Timbre 4 dove, anche lì, ogni fine settimana vanno in scena gli spettacoli di Claudio Tolcachir, un autore che negli anni futuri arriverà anche in Italia in luoghi come il Piccolo Teatro di Milano e la Biennale di Venezia. Scopro anche la gatta di Rafael Spregelburd, a casa sua, tra un caffè e qualche consiglio da darmi per scoprire tutto quello che c’è da scoprire qui a Buenos Aires.
Scopro che il teatro, qui, è ancora necessario anche se la dittatura è finita da un po’ di anni. Ogni settimana ci sono più di seicento spettacoli e il teatro è una buona idea per stare insieme, sia per chi lo fa, sia per chi lo segue. Qui il teatro sembra l’unica maniera per non rimanere soli nelle proprie case.
E in Italia, oggi? Cioè, ieri. In quegli anni Duemila. Era fatto della stessa sostanza di questi sogni? Si riversava nelle case e nei teatri di periferia? Io non lo sapevo, ma una cosa era certa in quei giorni a Buenos Aires: partire da una necessità era diventato un ottimo pretesto per viaggiare e scoprire le cose del mondo (e non solo quelle del teatro).
/// L’immagine che trovi all’inizio l’ho scattata all’Aeroporto di Venezia nel 2022