Occupy Cavallerizza
Fare piazza vuol dire in qualche modo fare città. Immaginare nuove strade possibili di convivenza, immaginare quasi tutto. Quasi, e non tutto, sennò sarebbe utopia. Così in Cavallerizza a Torino...
A un certo punto, nel 2014, occupano la Cavallerizza Reale di Torino. A noi era arrivata una soffiata da Giulia, un’amica attrice “esperta in occupazioni teatrali”. A noi, noi chi? Qualche mese prima avevo costruito con un gruppo di amici un collettivo di giovani professionisti chiamato CO.H: di fatto collaboravamo insieme inventando laboratori di narrazione ed eventi dal vivo in città. Noi, come tanti altri, volevamo capire cosa era questa occupazione e così, proprio dalle prime giornate, siamo lì a perlustrare guardinghi…
La Cavallerizza è un luogo in pieno centro storico, più di tremila metri quadrati con due teatri e una serie di altri spazi abbandonati per mancanza di soldi. Vista l’onda dei teatri occupati in Italia, a partire dal Valle di Roma, diverse comunità torinesi si uniscono e decidono di occupare questi luoghi.
Ci sono più anime: artisti e artiste, creativi, urbanisti, avvocati, attivisti... Si forma una Assemblea permanente chiamata Assemblea Cavallerizza 14:45 e dai comunicati si scopre che il primo obiettivo è quello di fermare la vendita di questo patrimonio Unesco ai grandi privati. Il tema è semplice: per mancanza di soldi in quegli anni le amministrazioni pubbliche vendevano parte dei patrimoni immobiliari pubblici per far cassa e risanare un po’ di debiti. E la Cavallerizza, vista la sua grandezza e la mancanza di un progetto unitario, rischiava di essere trasformata in un nuovo plesso commerciale senza vocazione culturale. Questo era il fantasma che univa tutte le comunità, da quelle più artistiche a quelle più politiche. E questo fantasma si aggirava per l’Europa da un po’ di tempo: lo raccontano bene Andreas Pichler ed Enrica Capra in un documentario chiamato “Europe for Sale”. Il documentario racconta di luoghi pubblici che stanno per essere venduti a privati e le comunità reagiscono unendosi e contrastando la vendita. La storia inizia in Trentino Alto Adige in una piccola comunità montana che blocca la vendita di due montagne che stavano per essere vendute a un’agenzia pubblicitaria che voleva rinominare le montagne a proprio piacimento (il documentario si trova online, magari quando finisci di leggere qui potresti guardarlo, dura un po’ ti servirà un’oretta: link).
Insomma, tornando alla Cavallerizza, quello che stava accadendo lì toccava più tematiche e questioni. Così le assemblee diventano un pretesto per incontrarsi, parlare, entrare in contrasto, unirsi e disunirsi. Stare insieme, fare piazza. Nelle grandi città “fare piazza” non era semplice, ma così sembrava possibile.
Fare piazza vuol dire non incontrarsi solamente tra simili ma tra persone (anche diverse) che vivono un determinato luogo e si pongono domande di senso. Fare piazza vuol dire in qualche modo fare città. Immaginare nuove strade possibili di convivenza, immaginare quasi tutto. Quasi, e non tutto, sennò sarebbe utopia.
Così in Cavallerizza a Torino, fin dagli inizi, c’è chi è ossessionato dalla rigenerazione dei luoghi urbani, studia o insegna al Politecnico, e fa ricerche per capire come strutturare un progetto unitario di questo enorme spazio di tremila metri quadrati. Si prendono a esempio un po’ di reti europee, come quella di Trans Europe Halles dove ci sono luoghi gestiti da abitanti e creativi. In quella rete c’è il Wuk di Vienna, il 104 di Parigi, il Bethanien di Berlino, il Can Batlò di Barcellona, la Tabacalera di Madrid… Sono quartieri dell’arte dove le istituzioni collaborano e sostengono esperienze comunitarie, dove i luoghi non sono “esclusivi” ma concretamente inclusivi. Un’ottima ossessione.
Poi c’è il gruppo di avvocati che ragiona incessantemente sulle nuove forme di diritto comunitario. In Italia c’è il diritto privato e pubblico ma (a quanto comprendo) non c’è ancora una tradizione normativa del diritto comunitario, quello delle Common Law… Si ragiona quindi su forme di gestione che escano dall’idea di appalto di un luogo che in taluni casi camuffa privatizzazioni.
Poi c’è il gruppo di operatori della cultura, gente che fa questo di mestiere. Il gruppo invita ospiti del mondo culturale e costruisce una programmazione che tenta di essere alternativa e indipendente. Laboratori e spettacoli, sì, ma alternativi e indipendenti. Da cosa? Le risposte sono contrastanti ma per fortuna già solo la domanda genera confronto. Ed è una cosa buona. In più questo gruppo programma incontri sui problemi di un settore, quello culturale. A volte non così trasparente, strutturato e solido nei suoi meccanismi produttivi.
E infine, i centri sociali. Quelli del Gabrio, quelli dell’ex Asilo, quelli dell‘Askatasuna. Quelli che a Torino conoscono benissimo le regole delle occupazioni e conoscono il modo più efficace per creare corto circuiti con le istituzioni. Quelli che fanno disobbedienza civile: visti male dai benpensanti e bene dai malpensanti; sempre meglio che non essere proprio visti (dai nonpensanti).
Insomma, quello che comprendo fin da subito è che qui dentro c’è la “pasta umana”, come un acquario pieno di pesci che si incrociano perché tutti nello stesso luogo. In un attimo questa occupazione diventa incrocio di vite.
Incrocio militante, maldestro, informe.
Ma comunque incrocio di vite. Qui partecipiamo anche con il mio collettivo e così CO.H si apre anche a nuove persone: Emanuele, Nina, Marco, Silvia, Irene, Marta, Anna Rita, Serafino, Federica, Giuseppe, Camilla. Teniamo la stessa modalità di esperienze che avevamo portato nel quartiere di San Salvario fino a qualche mese prima, ma qui troviamo una linfa differente perché legata a un corto circuito cittadino al di fuori di noi.
Fatto sta, come in tutte le storie, c’è un inizio, uno sviluppo e una fine. E la Cavallerizza, la sua occupazione, non riesce a trasformarsi in esperienza solida e duratura. Dopo cinque anni, nel 2019, viene sgomberata dopo aver perso la sua forza già a metà percorso. Le motivazioni sono tante, prima fra tutte la difficoltà di una direzione comune che tenesse unite le diverse anime dell’assemblea.
E insieme alla Cavallerizza anche altre realtà implodono, come il Valle Occupato di Roma, simbolo della stessa rivolta culturale, sgomberato nel 2016 dopo essersi trasformata in Fondazione. Un piccolo spiraglio di futuro si vede a Napoli, all’ex Asilo Filangieri, dove il Comune amministrato dal Sindaco De Magistris firma un “patto d’uso civico” insieme agli Occupanti e trova una formula condivisa: funzionari del Comune aprono e chiudono gli spazi di questo nuovo centro culturale, dentro le comunità (gruppi informali, associazioni, cooperative, possono realizzare attività). Questo accadrà a Napoli, non in Cavallerizza.
E sempre da Napoli, una voce si lega a Torino. Mario Martone proprio in quegli anni scrive una lettera accorata all’Assemblea Cavallerizza perché - proprio in quegli anni - lui era direttore al Teatro Stabile di Torino e voleva rispondere ad alcune dichiarazioni dell’Assemblea uscite sui giornali. Io, quella lettera, dentro a un mio piccolo quaderno di appunti, l’ho ritrovata. E quasi quasi ora ne pubblico uno stralcio, decisamente approfondito:
Cari occupanti della Cavallerizza,
vi scrivo a titolo personale, solo per sgomberare il campo da qualche equivoco e ragionare ad alta voce insieme a voi. (…) Il primo equivoco da sgomberare è l'accusa che formulate allo Stabile: "alla richiesta di impegnarvi nei lavori di ristrutturazione, avete semplicemente abbandonato la Cavallerizza Reale al suo destino". Proviamo a ricostruire.Se il Teatro Stabile avesse speso i duetrecentomila euro necessari a mettere in sicurezza il Maneggio Reale, i revisori dei conti, cioè coloro che garantiscono che il danaro pubblico non venga sperperato, lo avrebbero impedito, vogliamo chiarire il perché? Perché il Comune aveva cartolarizzato, ossia messo in vendita, tutta la Cavallerizza, creando le condizioni per cui, il giorno successivo alla ristrutturazione del Maneggio Reale, un privato poteva comprarlo, sebbene fosse stato ristrutturato e messo a posto con danaro pubblico. Potevano accettare una cosa del genere i nostri revisori dei conti? No. E per fortuna, dico io, guardando all'interesse pubblico. La situazione è cambiata quando, con l'amministrazione successiva si è proceduto a avviare la decartolarizzazione del Maneggio reale. Oggi, e siamo alla terza amministrazione coinvolta in questa storia, non c'è più il rischio che il Maneggio cada in mano a privati ed ecco perché lo Stabile potrebbe organizzare un piano di ristrutturazione che non verrebbe osteggiato dai revisori dei conti.
Proviamo adesso a sgomberare un secondo equivoco, quel che riguarda la vostra posizione. Nella vostra lettera rivendicate orgogliosamente ciò che avete fatto nel tempo dell'occupazione, gli spettacoli, i workshop, il teatro sempre pieno. Ne sono consapevole, infatti ho più volte detto, anche pubblicamente, che l'occupazione, grazie a questo lavoro, ha innescato un processo virtuoso che ha avuto il risultato di mantenere il Maneggio Reale in un'orbita culturale e aperta a tutti i cittadini, esattamente quel che era la Cavallerizza quando era gestita dallo Stabile. Ci siamo, per così dire, passati il testimone. Ci accusate di "chiamare sui giornali tutto questo disobbedienza civile per noi invece questo è un dovere civico". Sono io ad aver usato il termine disobbedienza civile e l'ho fatto nella convinzione che la disobbedienza civile, cioè il porsi al di fuori della legge riuscendo a indicare quanto la legge stia soffocando in una comunità, sia potenzialmente un grande gesto politico.
L'occupazione illegale di uno spazio pubblico può esserlo. A determinarlo tale è il senso di responsabilità, la capacità di preservare lo spazio stesso, il progetto che gli occupanti sono in grado di mostrare, la consapevolezza che di uno spazio pubblico si tratta e che tale dovrà restare una volta cessata l'occupazione. Abbiamo discusso più volte di tutto questo con gli occupanti del Teatro Valle a Roma. Anche lì si era innescato un processo virtuoso. Tanto per portare un'esperienza personale, quando vi ho girato una scena del Giovane favoloso ho visto donne e uomini giovanissimi che avevano imparato a gestire, da macchinisti e elettricisti impeccabili, la soffitta del teatro. Si vedeva chiaramente la qualità dei corsi che erano stati organizzati e la serietà del lavoro svolto. Ma gli occupanti del Valle volevano a tutti i costi porsi fuori dall'illegalità e venire riconosciuti legittimi gestori del teatro. Numerosi intellettuali e giuristi li hanno sostenuti in questa battaglia. La lunga vicenda si è conclusa con lo sgombero e l'attuale degrado del teatro.Personalmente ritengo che ciò che gli occupanti avrebbero potuto fare più proficuamente era discutere con il Comune, forti del loro gesto politico e dalla posizione di pulizia morale che la buona gestione del teatro aveva loro conferito, il futuro del Valle, un futuro che contemplasse, accanto alle istanze degli occupanti, anche la considerazione della lunga e gloriosa storia del teatro. Mi sembra, a occhio e croce, quel che potrebbe accadere a Torino con la Cavallerizza.
E sarebbe un bene, non solo per la Cavallerizza e per Torino, ma anche perché in Italia vige ormai una politica culturale che, stretta dalla crisi, strangola tutte le attività di base, l'associazionismo, il lavoro indipendente, ed è importante che si muova qualcosa in senso contrario. Ecco perché sono fiducioso ed ecco perché il Teatro Stabile si è presentato sulla scena pubblica dichiarando di esser pronto a fare la sua parte. Non certo perché consideri la Cavallerizza "un pezzo di città da spartire" ma proprio perché, trattandosi di un organismo pubblico, potrebbe garantire da tutti i punti di vista (economico, legale, gestionale, amministrativo) la vita di uno spazio aperto a tutti. (…)A fianco allo scenario che prospettiamo c'è infatti quello che emerge dalla vostra proposta ("Cavallerizza aperta, pubblica, unitaria e che la sua destinazione venga decisa attraverso un processo partecipato"). Nella vostra lettera portate anche l'esempio dell'ex Asilo Filangieri a Napoli, una realtà prima di tutto sociale che ha saputo avviare con la città un dialogo prezioso, riconosciuto non solo dall'Amministrazione ma anche dai cittadini. Un altro esempio straordinario (questo invece in campo prevalentemente culturale) è quello dei giovani occupanti del Cinema America a Roma, che attualmente svolgono nell'interesse pubblico numerose attività di grande richiamo. Come si vede, gli scenari sono tanti, e, per quel che mi riguarda, tutti interessanti.
Se il Comune deciderà di affidare direttamente a voi la gestione dello spazio per me va benissimo, e nel caso voleste coinvolgerci ascolteremo le vostre proposte, fermo restando che la "fame di spazi" dello Stabile di cui ha parlato il direttore Fonsatti potrà essere tranquillamente soddisfatta in altri modi. Diamo a Cesare quel che è di Cesare, cioè la responsabilità delle decisioni all'Amministrazione comunale. Noi, come voi, possiamo rispondere del nostro operato, mostrare quel che facciamo e abbiamo fatto, perché venga valutato. Il Comune deciderà. Ma, per favore, evitiamo di dettare condizioni con tono minaccioso."Siete disposti ad abbandonare il meccanismo clientelare dell’affidamento ad personam, del privilegio, dell’uso esclusivo degli spazi?": ma che domanda è? Avete scorso i programmi del nostro teatro? Ci rimproverate di non conoscervi, ma a quanto pare nemmeno voi conoscete la nostra attività. I pochi metri che ci separano fisicamente andranno pur percorsi un giorno, ma perché si tratti di un cammino democratico, bisognerebbe che ciascuno rispettasse la dignità dell'altro, con reciproca fiducia. Un valore che va svanendo nel nostro paese, vogliamo provare a preservarlo almeno a Torino? Con amicizia e molti auguri per un anno felicemente risolutivo.
Mario Martone
A questa lunga lettera del 2017, purtroppo, non c’è mai stata una risposta. Poi lo sgombero del 2019. Ne è valsa la pena? Bè, direi di sì. Tutto ciò è stato un tentativo. Il tentativo di rifare piazza, rifare città in un tempo in cui le persone avevano sempre più paura di uscire dalle proprie case e dire la propria. Ti pare poco?
/// L’immagine che vedi sopra è stata scattata nel 2015 in Cavallerizza prima dell’inizio di uno spettacolo che ho scritto per CO.H chiamato “Scrivi tu la fine”. In quella storia raccontavamo di tre amici, della loro convivenza e delle loro paure sul futuro, di un consumo spensierato della vita.
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