Prospettiva comune
Con Lucia e Marco parliamo di desideri. Scopriamo di averne uno comune: quello di immaginare una “casa artistica” a Torino. In parole più semplici: trovare uno spazio in città da gestire insieme...
A un certo punto, nel 2013, mi ritrovo a fare una cena marocchina al Quadrilatero di Torino. Siamo all’aperto e ci sono un sacco di pouf, il tè alla menta e un po’ di cous cous. Davanti a me c’è Lucia (che ama costruire le cose concretamente, non solo le scenografie ma qualsiasi cosa che possa essere montata) e accanto Marco (che è molto curioso e si occupa di video). Ci eravamo conosciuti durante i giorni della Cittadella del Teatro ad Alessandria, qualche anno prima, e ora siamo qui perché non ci vediamo da un po’.
Parliamo di desideri. Scopriamo di averne uno comune: quello di immaginare una “casa artistica”. In parole più semplici: trovare uno spazio in città da gestire insieme portandoci dentro un po’ di laboratori ed eventi dal vivo. Così - una volta finito il tè e il cous cous - ci lasciamo con un compito specifico: perlustrare la città fino a trovare un posto che possa tenerci uniti. E per farlo volevamo essere un po’ più di tre. Così facciamo qualche invito alle persone che avevamo più vicine: c’è Manu con la passione per l’organizzazione; e poi Carlo, Gabriele e Riccardo, con un percorso più attoriale, infine Giuseppe e Luis che si occupano di narrazioni.
A un certo punto scopriamo che nel quartiere San Salvario, conosciuto in città per la sua anima multietnica e per la movida notturna, c’è uno spazio che si chiama “incubatore di idee”. Ci sembrava un’ottima occasione - quella di farci incubare le idee - concretizzando questa “casa artistica”: ci bastava una piccola corte interna a un condominio, una sala molto ampia al piano rialzato per le attività e una saletta più piccola uso ufficio.
Ci serviva un nome per essere uniti: per questo nasce CO.H che sta per “co-housing artistico”. Il “co-housing” è un termine che viene usato per le co-abitazioni in alcuni condomini. Accade che per non rimanere soli nelle proprie case, soprattutto nelle grandi città (ma forse anche in quelle piccole?), si costruiscono accordi tra i condòmini immaginando spazi comuni per ritrovarsi (orti, saloni e taverne, lavanderie di condominio). Bene, l’idea per noi era un po’ questa ma in termini artistici: costruire qualcosa uniti da una prospettiva comune.
Abbiamo uno spazio, certo. E ora? A San Salvario il problema è che le strade sono ricolme di persone, praticamente tutte le sere fino all’alba. Qui c’è la movida, qui ci sono quelli del we, vatti a vestire che andiamo a fare la baldoriaaa!.
Tentiamoci. Iniziamo proprio da loro, da quei ragazzi che fanno la baldoria. Invitiamo loro a partecipare alle nostre serate di eventi e a qualche laboratorio. Poi, certo, invitiamo anche quelli che amano un po’ la cultura e un po’ il racconto dal vivo. Ma l’obiettivo è incontrare loro, quei ragazzi che - di cultura - ne fanno a meno.
Inventiamo dei format, li chiamiamo così. Il primo è quello di Marco, si chiama Insoliti Parcheggi ed è molto semplice: raccontare storie per tre spettatori alla volta dentro a un auto. E seduti davanti? Due attori e un dialogo. Riempiamo alcune macchine di Attori e Pubblico; e il quartiere si chiede cosa accade lì dentro. Il Pubblico rinuncia a qualche drink e si beve qualche storia. Poi c’è Luis con la Cabina delle Storie, praticamente uno spettatore alla volta entra in una cabina, dentro c’è una sedia, c’è anche un telefono con sopra una luce. Quando la luce è accesa Luis è dall’altra parte della cornetta e fa domande, chiede storie. E se le storie gli piacciono lui offre allo Spettatore un bicchiere di vino al melograno.
Ancora un po’ di format, c’è Giuseppe che inventa Shottini con un bancone e qualche storia amara e secca da raccontare, come un bicchierino di liquore. E poi ci sono i miei format laboratoriali, come EduScé LAB che porto da un po’ in giro per l’Italia o come Distrazioni dove si scoprono di volta in volta le drammaturgie di autori internazionali (Distrazione Buenos Aires, Distrazione Berlino, Distrazione Londra, Distrazione Parigi) e si gioca con il teatro provando a mettere in scena qualche pezzo. Così facciamo scoprire un po’ di autori, dai classici come Sofocle o Brecht ai contemporanei come Joel Pommerat o Mark Ravenhill. Ci sono anche Lucia e Manu con il Picnic delle Idee: tovaglie a quadretti e in ogni tovaglia un titolo e una persona che ha un’idea da condividere. E chi vuole si avvicina, si siede e ascolta.
Format, perché quello che inventiamo è la struttura creativa che di volta in volta si rinnova dei contenuti in base al chi e al cosa. Queste strutture ci sembrano un’ottima idea per rimanere in contatto con le persone, non appesantirle di forme tradizionali dove il Pubblico è seduto e basta.
Così iniziamo una bella avventura che dura per un po’, fino a che non ci arriva la telefonata di un’amica attrice, Giulia, un’esperta in “occupazioni teatrali”. Ma cosa vuol dire? Vuol dire che a un certo punto, in Italia, in quel periodo, viene occupato lo storico e abbandonato Teatro Valle di Roma (lì Pirandello aveva debuttato con Sei personaggi in cerca d’autore un centinaio di anni prima). Solo che proprio in quei mesi la situazione dei lavoratori dello spettacolo e della cultura è allo sfacelo, l’Italia vive di un glorioso passato artistico ma relega la creazione contemporanea a un fatto più esistenziale che professionale.
Così un gruppo di lavoratori dello spettacolo, o ancora meglio un gruppo di “lavoratrici e lavoratori dello spettacolo”, decide di occupare temporaneamente quel teatro e fare rivolta culturale: creare un corto circuito tra mondo reale e istituzioni. Il risultato è che tutti puntano i riflettori su quel fatto con il sostegno di artisti del teatro, del cinema, della televisione, della musica.
Una parte delle comunità artistiche, allora, inizia a risvegliarsi. Così a Napoli nasce il Filangieri, a Milano Macao, a Pisa il Rossi Aperto. Non solo. Inizia a girare la voce che un modo per creare corto circuiti è possibile: fare rivolta culturale a partire dai luoghi abbandonati della cultura. “E a Torino? Nessuno che vuole fare rivolta? Cosa abbiamo da perdere?!” ci dice Giulia al telefono. Solo che ci serve un luogo che diventa il simbolo di questa rivolta… “Ma il luogo c’è: si chiama Cavallerizza Reale!”, il telefono continua a tremare, “sappiate che a brevissimo qualcosa accadrà…”.
Giulia è una sorta di Oracolo di Delfi. Ci predice l’imminente futuro o in qualche modo ci rivela semplicemente il presente. Tocca a noi, siamo a Torino. Ma noi sappiamo solo raccontare storie, non spaccare le porte e occupare. Questo come si fa?
La Cavallerizza ha due teatri - uno grande e l’altro piccolo - che si trovano in pieno centro, e in pieno centro quel luogo è stato abbandonato per mancanza di soldi. E la politica locale sta vivendo una mutazione antropologica, direbbe Pasolini.
Siate prudenti, qualcuno ci dice. Anche se poi ci compare in sogno qualcuno dall’Olimpo: “Com’è triste la prudenza!”, dice Rafael Spregelburd, un autore argentino nostro contemporaneo, “di per sé il teatro – nel bene e nel male – produce soltanto teatro. E attraverso le sue azioni aiuta a credere nell’incredibile e a ripensarlo”.
Benissimo, Rafael. Noi vorremmo credere nell’incredibile. Ma, questo, come si fa? Come si fa se la città è vuota di rivoltosi? Dai, non ci credo. A Torino? La città di Gramsci, Calvino e Pavese, la città della Resistenza, delle lotte operaie e studentesche, dei movimenti No Tav. No, questa città non può essere vuota. Forse un po’ più prudente oggi, ma vuota proprio no…
/// L’immagine che trovi sopra, all’inizio, ce l’ha scattata Carlo, io sono quello seduto e dietro c’è Marco. Mi sembra un buon modo per lasciare una memoria visiva legata a quello che hai letto :-)
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ciao...Andrea...