Un motoscafo a Venezia
Quando ho dovuto scegliere la città dove studiare - dopo le scuole superiori - ho scelto qualcosa di vicino. Il treno che unisce Venezia al Friuli mi fa tornare velocemente in famiglia...
A un certo punto mi ritrovo al volante di un motoscafo che schizza tra i canali di Venezia. Ora è notte fonda e nelle calli, le stradine della laguna, non c’è nessuno. Ci sono le luci dei lampioni, una nebbia che li appanna e il silenzio. Schizzo a una velocità che è impossibile da immaginare in confronto alla lentezza delle gondole che passano di giorno. Non c’è un fantasma vivo, solo io.
Apro gli occhi e il mio corpo non è su un motoscafo, tantomeno tra le calli. Ma sì, una cosa è vera, da qualche settimana abito a Venezia. La città mi è entrata così dentro che è apparsa in sogno.
Quando ho dovuto scegliere la città dove studiare - dopo le scuole superiori - ho scelto qualcosa di vicino. Il treno che unisce Venezia al Friuli mi fa tornare velocemente in famiglia, meno di due ore. Tornare sì, ma non così veloce da poter fare su e giù ogni giorno. Impossibile.
Così per qualche anno, il tempo di laurearmi, rimango a Venezia. C’è un corso di laurea che organizza l’Università Ca’ Foscari, si chiama “Tecniche Artistiche e dello Spettacolo” e studiamo un po’ il mestiere.
Nel mio Friuli quando pensavi al “mestiere” pensavi proprio ad altro, pensavi al lavoro in banca, a quello in ospedale o in azienda, pensavi alle bio-tecnologie e all’ingegneria. A volte, quando pensavi al “mestiere”, in Friuli, pensavi anche di rado all’educazione professionale o alla psicologia. Ma era un terreno pericoloso, dove gli amici che sceglievano quel mestiere erano destinati all’incomprensione parentale, per sempre.
Io a un mestiere non ci pensavo ancora. E insomma: studiare un po’ il mestiere, ancor più se legato all’arte e allo spettacolo, significava proprio capire quali erano, perché io - tranne Ornella, la mia prima “maestra” teatrale - avevo visto pochi farlo.
I mestieri dello spettacolo, nell’immaginario parentale vicino a me, erano mestieri televisivi: la nonna di Catania aveva plasmato la mia infanzia alle statistiche economiche di Iva Zanicchi con il suo “Ok, il prezzo giusto”, le mie cugine siculo-friulane conoscevano le storie struggenti di “Stranamore” e del dottor Castagna, anche i miei genitori - in fine dei conti - erano discreti cultori della materia approfondendo alcuni programmi tv cult come “Paperissima", “Chi l’ha visto?” e “Mi manda Rai Tre”. Il lessico famigliare dello spettacolo era questo. E dirai tu: che spettacolo!
Alle superiori ero rimasto abbastanza folgorato dal teatro fatto a scuola, al Palio Studentesco e insieme a un po’ di compagni di viaggio e amici mi ero convinto che quella era una strada seria e giusta. Ero folgorato da pochi pensieri ma buoni: faticare insieme, raccontare storie su un palco, studiare non solo per un voto da prendere a scuola. Così preparo una valigia piena di buoni propositi e a Venezia scopro un po’ il “mestiere”.
Venezia era una buona culla dove cullarsi, si camminava a piedi, non c’era il frastuono delle città, le persone incrociavano lo sguardo per strada, e poi - si scopriva lontano da San Marco e Rialto - che la laguna non era solo dei turisti americani e cinesi, e che non c’erano solo i piccioni da sfamare. C’era qualcosa in più: la rosticceria di Campo San Bortolo dove prendere i cicchetti e gli spritz dopo i corsi all’Università, la pizza al trancio e il kebab di Campo Santa Margherita, le frittole allo zabaione da Tonolo, il gelato Da Nico alle Zattere sul Canal della Giudecca. C’era anche il piccolo cinema Giorgione e la biblioteca universitaria che chiudeva a mezzanotte, e che poi ci rimanevi fino alla fine per buona parte dei tuoi giorni, come tanti altri che studiavano lì in laguna, perché il mestiere, tra una festa e l’altra, avevi voglia di impararlo.
La Ca’ Foscari mi ha fatto scoprire un bel po’ di “maestri” perché i corsi di teatro, cinema e musica (fatti di molte cose, dalla progettazione fino alla produzione artistica) si alternavano a esperienze pratiche di drammaturgia, regia e recitazione grazie ai laboratori con la Biennale Teatro e con la Fondazione di Venezia. La Fondazione era legata a una banca che sosteneva i “Giovani a teatro”, si chiamava così il loro progetto, lo faceva in una maniera davvero semplice: avevi una tessera ed entravi a tutti gli spettacoli pagando due euro e cinquanta, meno di uno spritz. E insieme a questo potevi seguire, se volevi, alcuni laboratori con diversi professionisti del teatro che passavano in laguna.
Esperienza pratica, fatta da persone che “di mestiere” facevano questo: formatori e creatori. Ho conosciuto così Gabriele Vacis e Marco Paolini, imparando praticamente cosa volesse dire “fare narrazione dal vivo”, ho scoperto così César Brie, imparando praticamente cosa volesse dire “fare teatro partendo dall’azione fisica”, ho scoperto così José Sanchis Sinisterra, Juan Mayorga e Rafael Spregelburd, imparando praticamente cosa volesse dire “scrivere storie per il teatro”. Negli anni a seguire ne ho scoperti anche altri, di sguardi maestri, in prima persona: Emma Dante, Roger Bernat, Eva-Maria Voigtlander, Agrupación Señor Serrano.
Ho scoperto un po’ il “mestiere”, anche senza motoscafo, e qualcosa di quelle persone e del loro immaginario, Io, un po’ di quel loro sguardo, volevo portarmelo nel futuro.
/// L’immagine che vedi all’inizio l’ho scatta all’Arsenale di Venezia nel 2016