Una cittadella del teatro
Qui ad Alessandria ci sono materie atipiche. Tutte le mattine ci alleniamo con un po’ di training fisico e vocale, questo significa che risvegliamo i muscoli e il corpo per attivare la mente...
Ad Alessandria, in Piemonte, c’è una cittadella militare che assomiglia a Palmanova, la città-stellata dove sono cresciuto in Friuli. Qui Vacis è diventato il direttore del Teatro Regionale Alessandrino e in estate, nel 2011, propone un progetto pedagogico dove invita giovani artisti e creativi a partecipare a una formazione gratuita di una decina di giorni. Ci sono diversi formatori e Gabriele, proprio a Roma qualche mese prima, mi aveva parlato di questa scuola invitandomi a partecipare.
Ci sono materie atipiche, potremmo dire. Tutte le mattine noi partecipanti ci alleniamo con un po’ di training fisico e vocale, questo significa che risvegliamo i muscoli e il corpo. In questo ci aiuta Domenico Castaldo insieme al suo “coro” di allenatrici. Cantiamo in gruppo e respiriamo insieme. Qualcosa di molto vicino a un’attività sportiva e questo aiuta anche la mente a pensare meglio.
Sì, i pomeriggi servono proprio a questo, a pensare meglio: c’è Natalino Balasso che ci insegna una materia chiamata “Comicità e altre tragedie”, Marco Paolini con “Il business della narrazione” e Giorgio Gallione con “Il teatro al tempo dell’accidia”. C’è anche Roberto Tarasco e Michele Di Mauro con “Scenofonie”, Fausto Paravidino e Cristina Pezzoli con “Drammaturgia”, infine Alice Rohrwacher e Tatiana Lepore con “Acting coach per il cinema”. Ci esercitiamo a raccontare storie dal vivo, le scomponiamo, le rimontiamo. Sembriamo piccoli orologiai con ingranaggi del tempo da far funzionare bene.
Siamo tanti, la sera facciamo anche un po’ di festa dopo le attività giornaliere e ci conosciamo. C’è Ivan che viene da Gerusalemme e ha lavorato con Vacis in un progetto teatrale in Palestina, ci sono Cristian e Silvia che stanno scrivendo un racconto da portare al Fringe di Edimburgo (uno dei festival più conosciuti del mondo), poi c’è Marianna che in Puglia si occupa di teatro di figura (il teatro che si fa con gli oggetti, pupazzi e marionette), c’è Francesco che ha appena finito le superiori e viene da Ancona, Lucia che vuole fare la scenografa, Massimo che studia come educatore, Francesca che viene da Roma e fa parte del Teatro Valle Occupato, chiuso da qualche mese e riaperto da un gruppo di lavoratori dello spettacolo con una missione: fare rivolta culturale.
Siamo in tanti, portiamo nei nostri zaini un po’ di sogni e qualche passione. Il teatro sembra un pretesto per stare insieme e non sentirsi troppo abbandonati a se stessi. Il teatro, incontrato in questo modo, è un pretesto per comprenderlo davvero.
In una di quelle sere conosco anche Antonia Spaliviero, la moglie di Vacis, che si occupa di teatro da tempo e ascolta i miei racconti sul teatro che volevo fare, quello nei contesti educativi e sociali. Lei d’altro canto mi racconta che al Teatro Settimo, il gruppo legato alla città dove sono cresciuti (Settimo Torinese), hanno sempre fatto laboratori nelle scuole e non solo spettacoli. Mi racconta che Torino è stata la “capitale” dell’animazione teatrale, che Giuliano Scabia dopo l’esperienza con Franco Basaglia nei manicomi di Trieste portò il suo modo di far teatro nelle periferie torinesi nei progetti dedicati al “decentramento culturale” negli anni Settanta. Ovvero: uscire dai luoghi istituzionali portando la cultura a scuola, nelle fabbriche, nei manicomi, nei quartieri degradati. Antonia mi racconta questo, mi dice che alla fine di un laboratorio fatto alle scuole medie di Settimo aveva coinvolto anche Lella Costa, una loro compagna di viaggio. E che era pieno di persone che credevano in questo tipo di teatro, un po’ più progettuale e un po’ meno spettacolare. Antonia mi dice di farle sapere come continuerà il mio percorso, di farle sapere cosa farò in futuro. E alla fine mi lascia la sua mail. Io le dico che, sì, certo, volentieri te lo racconterò.
Alla fine di questa estate, alla fine di tutta questa esperienza asserragliati in una cittadella militare, capisco un po’ di cose e penso che quell’ambiente è un po’ casa. E che di quell’ambiente buona parte delle persone abitano a Torino. Capisco poi che il teatro non può esistere senza relazione. E penso a un altro maestro del Novecento, Grotowski, uno di quelli che si studia all’Università ma che anche qui, in questa scuola estiva, è stato nominato spesso. Mi risuonano le sue parole: “Eliminando gradualmente tutto ciò che è superfluo, scopriamo che il teatro può esistere senza trucco, costumi e scenografie appositi, senza uno spazio scenico separato (il palcoscenico), senza gli effetti di luce e suono… Non può esistere senza la relazione con lo spettatore in una comunione percettiva, diretta”.
Un’antica verità, il teatro non può esistere senza la relazione. E di relazioni, in quella scuola estiva ad Alessandria, ne avevo fatto scorta per tutto l’anno a venire.
/// L’immagine che vedi sopra non l’ho fatta io ma l’ho trovata su Facebook, è stata scattata in Cittadella nel 2011