Le cose fragili
A volte con le storie va così, ti affezioni e le porti sempre con te. Nel 2016, a Torino, volevo dar seguito al format Afropolitan LAB dopo l'esperienza in Senegal...
C’è una storia che mi sono portato in tasca per un po’. A volte con le storie va così, ti affezioni e le porti sempre con te. Ti svegli con loro, le tieni vicine, la sera ci ripensi e vorresti solo condividerle con le persone accanto. Sono parte di te perché aiutano a comprendere meglio la vita.
Questa storia si chiama “La bellezza delle cose fragili”. Il titolo originale è “Ghana must go” e il libro è stato scritto da una scrittrice chiamata Taiye Selasi. Questo romanzo racconta di una famiglia sparsa nel mondo, che “non ha sotto niente di così pesante come i soldi” per tenerla ferma nello “stesso pezzo di terra”.
Le cose fragili, in quella storia, erano le relazioni. E in Afropolitan LAB, il progetto di narrazione teatrale che avevo portato in Senegal nel 2015, avevo scoperto che costruire relazioni tra le persone era l’elemento più importante per comprendere alcune cose.
Nel 2016 a Torino, la città dove vivo, volevo dar seguito a quella esperienza. Così costruisco un calendario di incontri in collaborazione con il Centro Studi Africani e con una rete di comunità che si collega ad altri contesti sociali, come il festival CreativAfrica, il Centro Etnopsichiatrico Frantz Fanon, l’Università degli Studi di Torino e il Centro Interculturale della Città di Torino.
Per ognuna di queste realtà sociali ci sono, appunto, le persone. Tra tutte, ora, mi tornano in mente Federica e Fartun che collaboravano con il Centro e che mi hanno aiutato fin da subito a promuovere i laboratori coinvolgendo i partecipanti.
Dopo alcune settimane fatte di incontri di presentazione all’Università e in alcune cooperative sociali legate a persone migranti ecco che il gruppo si forma: una trentina tra studenti italiani e giovani afro-discendenti arrivati da poco.
In quegli anni l’Italia viveva un importante cambiamento antropologico. Le migrazioni erano un tema divisivo che facevano perdere o vincere le elezioni. Le migrazioni (l’arrivo di persone da paesi come l’Africa Nera o l’area afgana-pakistana) accendevano discussioni, paure e conflitti tra le persone. Il dibattito pubblico si fermava di frequente a un concetto semplificato, “accogliamoli sì nel nostro paese, ma solo se scappano davvero dalla guerra”. Questo faceva intendere che tutte quelle persone che arrivavano qui per altri motivi, per esempio quelli economici o anche semplicemente per sognare una vita altrove, in Europa, potevano essere messi dalla parte dei disonesti (morali), dei “clandestini”.
Afropolitan LAB voleva tentare una strada nuova, creare e raccogliere storie che si allontanassero da questo pensiero intercettando narrazioni basate su altri punti di vista, come per esempio “partire per un sogno da realizzare”. Perché quando i desideri vogliono essere realizzati da una persona non c’è frontiera o pericolo che tenga.
Così Afropolitan LAB diventa un laboratorio teatrale di comunità e un contenitore di storie afropolitane. Sì, perché proprio la scrittrice di cui parlo all’inizio di questo racconto aveva coniato in quegli anni il termine “afropolitano” per intendere una nuova generazione che metteva in dialogo culture occidentali e tradizioni locali africane.
Taiye Selasi si chiede quale sia la sua identità, quali siano le sue radici. I suoi genitori venivano da paesi che non esistevano quando sono nati in Africa... E un paese, una nazione, non è una base adatta per comprendere un essere umano e la sua vera identità.
Un afropolitano deve costituire un'identità su almeno tre dimensioni: nazionale, etnica, culturale. Mentre i nostri genitori possono rivendicare un paese come loro casa, noi dobbiamo definire il nostro rapporto con i luoghi del mondo in cui viviamo. L'afropolitano sa che niente è bianco o nero. Questo è il privilegio afropolitano: l'accettazione della complessità comune.
La storia di una persona è reale ma le nazioni sono state inventate. Ho scritto un saggio “Che cos'è un afropolitano?” cercando di definire l'identità privilegiando una cultura piuttosto che un paese. Un paese (una nazione) è finzione, l’esperienza umana è invece la realtà. E l'intera esperienza umana è locale.
L'esperienza della località è strutturata in quelle che io chiamo le tre R:
- Rituali: momenti quotidiani che ti appartengono
- Relazioni: incontri interpersonali che influenzano le tue giornate
- Restrizioni: gli aspetti che ti impediscono di vivere la tua località (razzismo, guerre, inflazione economica, ecc.)
Nei laboratori settimanali facevo questo, condividevo storie di talenti (e non solo storie di migrazione). Facevamo qualcosa di semplice: spostavano il punto di vista. E cercavamo di allenarci a essere un po’ “griot” che nell’Africa nera significava “racconta storie” o ancora meglio “cantastorie”. Ogni settimana il laboratorio era lo spazio di allenamento e poi raccontavamo storie dal vivo in diversi eventi cittadini legati al dialogo tra culture.
Tra i trenta che ogni settimana seguivano i miei laboratori una ragazza dal sorriso bianchissimo e gli occhi grandi iniziava a farsi sentire, non solo con la sua voce ma anche con le parole scritte. Il suo nome era Esperance, nata in Rwanda e cresciuta a Brescia dall’età di tre anni. Esperance avrebbe in seguito coltivato il suo talento pubblicando romanzi…
In ogni laboratorio chiedevo a qualcuno del gruppo di stendere un “diario di bordo” per lasciare una traccia del tutto personale su ciò che facevamo. E così, scartabellando il mio archivio di appunti, ritrovo il diario di Esperance. E oggi, che ancora questo tema è vivo, e che divide, e che fa accendere discussioni, oggi, vorrei chiudere con le sue parole, che in qualche modo offrono ancora un altro punto di vista al mio racconto e lo completano. Offrono anche una risposta all’obiettivo di questi progetti, da una parte promuovere l’espressione creativa delle persone e dall’altra costruire contenitori di accoglienza, partecipazione e coinvolgimento attivo (per chi arriva e per chi accoglie):
11 gennaio 2017. È mercoledì, sono le cinque passate e a Torino i gradi che si contano non vanno nemmeno alle elementari. Fuori dal Centro Studi Africani, in bilico sul gradino, c’è Andrea che cerca di aprire il portone con le chiavi che gli hanno affidato. Tra le domande e l’impegno che ci mette per trovare la giusta combinazione il tempo lo sfiora un po’ ma lui riesce a rimanere in equilibrio. Andrea e lo zaino che chissà dentro che cosa c’è, gli occhiali appannati dal freddo e il sorriso sempre acceso.
Oggi, nel giorno del ritorno e del secondo modulo di questo laboratorio c’è gente nuova nella sala del tè; che sarebbe più onesto chiamarla “Sala Del Tu” perché è sempre un tu come ti chiami?, che cosa studi?, di dove sei?, vuoi del tè?, dopo, a cena, cosa fai?
Andrea, col suo fare leggero e quel modo che ha di entrare nelle stanze senza disturbare, ci mostra i fogli delle iscrizioni e ci invita ad andare a compilarli. Poi sparisce di nuovo, come a dicembre quando ha salutato tutti senza dire troppo. Chissà se l’ha imparato anche questo a teatro: la capacità di far restare qualcuno appeso a un filo, rendendolo felice di quell’attesa e del vuoto.
Il nuovo anno e il gelo non hanno portato niente di diverso; come al solito il tempo passa e nessuno si muove dalla stanza del tu. Le chiacchiere che ci tengono inchiodati lì sono così semplici che spostarsi ci sembra sbagliato. Forse è ora, è arrivata pure Elena.
Raggiungiamo Andrea e le sedie che fanno da torri della nostra fortezza temporanea e ci sediamo in cerchio. Senza dovercelo dire, senza aspettare, senza problemi. E un po’ la sensazione è quella; mentre si fa il conto mentale dei ricordi, delle facce conosciute, di quelle che mancano e che non si sono viste, la sensazione è proprio quella di quando i problemi per un po’ se ne stanno fuori dal cerchio, fuori da tutto.
“Dovremmo provare a iniziare alle 18.30” azzarda Andrea. Dovremmo provare ad iniziare alle 18.30 perché abbiamo un sacco di cose da fare, aggiunge. Andrea racconta e quando lo fa ti porta nel suo mondo leggero. Noi non pesiamo più e il video degli AfroLab in Africa al buio ci illuminano il viso, e non solo. È assurdo pensare che qualcuno prima di noi, a migliaia di chilometri da lì, abbia già fatto tutto rendendolo reale. È assurdo credere che pure noi potremmo realizzare qualcosa del genere.
E proprio quando ci siamo abituati al buio c’è un testo da leggere e qualcosa da provare. Una storia, una memoria o, come dicono là fuori, parole. Così grandi che a mandarle giù l’acqua forse non basta, così grandi che per fortuna è Elena che le legge e vorresti che lo facesse con tutto quello che hai in testa. Alla fine della lettura, in mezzo al cerchio sono rimasti un po’ di nostri pensieri, qualche silenzio morbido e la voce di Riccardo che un po’ dice quello che vorremmo e per fortuna che c’è. Come la voglia di sapere chi sono le nuove persone che hanno voluto vedere le stanze di questo castello che abbiamo costruito in un primo modulo pieno di fiducia negli altri, nel conoscersi. E allora un fiammifero, il tempo contato, qualche recriminazione da chi l’ha fatto prima e “ehi, ma la prima volta non è stata così!”, l’imbarazzo che esce dalla stanza anche se rimane sull’uscio a spiare e quei “basta” che dicono tutto quello che manca, che non si può sapere.
“Dài: in piedi”. Che si iniziano gli esercizi, che inizia la parte più strana e più forte; ma forte nel senso che se ti spinge non ti fa male ma ti smuove. Come gli sguardi di sfuggita di Lidia nel bel mezzo della piccola folla, le braccia di Bakarì che ti circondano dal nulla o la risata di Federica che è pure più azzurra dell’ultima volta.
Noi attori della nostra memoria, noi spettatori della nostra concentrazione. Con le schiene contro al muro, Martina che traduce tutto a Karim ma quando la guardi lei non ha bisogno di sottotitoli, il cappuccio della felpa tirato su, Virginia che osserva tutto piano e la voglia di ricominciare l’esercizio daccapo; perché adesso è più di un gioco, adesso abbiamo capito. Ma non c’è tempo di ragionarci su, di dispiacersi dell’assenza di Sano e di Adama, malati o troppo lontani, che è già ora di buttarsi su di una nuova avventura.
“Dài: ancora in piedi”. Questa volta per scegliersi che poi scegliersi non è mai. È un camminarsi affianco, parlarsi, ridere oltre e, quando c’è da fermarsi, sfiorarsi e carpirsi, allungare le braccia, la vista e la voglia. Coppie che si formano così. Poi un foglio da cercare, una biro da chiedere in prestito e tutti di nuovo per terra. Come bambini che non si stancano mai pronti a crescere con i ricordi di chi si ha davanti. “Quando è stata la volta che ti sei sentito a casa?”, “ma in che senso?”, “spiega meglio”, “e con chi eri?”, “cosa provavi?”, “ adesso ti manca?”, “ti è successo di nuovo?”. Gli occhi chini sui fogli e l’inchiostro per fermare il tempo, buono e cattivo. Abbiamo i poteri e non lo sapevamo. Siamo magici! Abbiamo trasformato la carta, le gambe e i ricordi in un verbo: condividere.
Alla fine Andrea ritira fuori i punti in sospeso che avevamo lasciato in custodia a dicembre e li unisce con un ginocchio sul pavimento e lo sguardo che se ti incrocia sa di nuvole. I progetti sulla squadra olimpionica dei rifugiati da sistemare, finire e migliorare per chi ancora volesse; un racconto da scrivere con le parole che ci siamo appena scambiati e il temutissimo e incompreso “gruppo social” da costituire e gestire. Cose piccole che colorano le pareti, ruoli piccoli per tenere unito il gruppo, la squadra, il regno e tutto quello che siamo e non siamo quando stiamo lì.
Però dopo un saluto arrugginito (ché siamo stati lontani giorni e tutto mica può essere perfetto, no?) tutti a casa. Che “comprendere” è un contenere che è includere; e, anche se solo un giorno a settimana e a scadenza di moduli, è bello far parte di qualcosa. Che “comprendere” è un capire che è afferrare; e, tra tutte le materie del mondo, è bello sapere qualcosa in più sull’umanità tornati a casa.
E se quello che si comprende si fa proprio, allora, alla fine di questo mercoledì gelido e un po’ stanco, sarebbe fantastico che i maglioni lunghissimi e gli occhi che ti viene voglia di viverci di Andrea, i racconti e i ricordi sui “griot” di Lamine, la mano sempre alzata che in un certo senso riempie i vuoti di Daniela e la musica di Giulia, diventassero nostri. Almeno per il tempo di tornare a casa. Almeno per il tempo di spogliarsi, di mettersi di nuovo al caldo e per sbaglio ritrovarsi una filastrocca sulle ginocchia e, prima di andare a fare altro, a dormire o a finire tutto il resto, fermarsi, leggerla e leggersi un po’. E stare bene ancora un po’.
/// L’immagine che vedi all’inizio è stata scattata nel 2016 al Centro Interculturale di Torino. Avevamo partecipato con il gruppo di Afropolitan LAB al festival CreativAfrica raccontando le storie degli atleti olimpionici della squadra Refugees.
/// In una delle prossime volte mi piacerebbe inviarti delle domande scritte e leggere io - grazie alle risposte - alcune tue storie, anche piccolissime. Potrebbe essere una piccola parentesi per qualche racconto collettivo di Precise storie. Basterà fare “rispondi” a questa mail (se stai leggendo questa storia dal tuo indirizzo mail) scrivendo “Va bene, ci sto!” e la tua risposta mi arriverà direttamente. Oppure se ti è più comodo, quando vorrai, basterà scrivermi a questo indirizzo: precisestorie@andreaciommiento.it.
/// Lo sai, se ti fa piacere c’è un modo per interagire con queste storie. Puoi cliccare qui sotto scegliendo tra i bottoni: “Like” (per dire che ti è piaciuto questo racconto), “Comment” (per scrivere tu un pensiero o qualcosa che pensi sia collegato a quello che hai letto) , “Share” (per condividere il link a qualche persona vicina a te via mail, via Facebook, Instagram, WhatsApp o Twitter). Fammi sapere se interagirai :-)