Stare tutti in un punto
Per tirarci un po' su abbiamo bisogno di Italo Calvino e di stare "tutti in un punto". Per questo nel 2016 conduco un laboratorio chiamato "Scrivere la città" a Udine e scopro che...
Forse ricordi, nel 2016, a Torino avevo curato un progetto in un quartiere chiamato Campidoglio. Facevamo qualcosa di semplice, laboratori di narrazione ed eventi di comunità collaborando con diverse associazioni culturali e coinvolgendo gli abitanti più attivi in quelle azioni. Potremmo dire che utilizzavamo il teatro come strumento di partecipazione attiva (lo racconto qui nella storia “Tutta la città è un palcoscenico”).
In quella occasione, grazie ai continui scambi con persone che provenivano dal mondo dell’urbanistica e dell’architettura, come Giulia (mia partner in crime nei diversi progetti futuri che ti racconterò), capisco che la città non era solo il luogo dove le persone abitavano, lavorano e passavano il proprio tempo, ma anche una possibile ispirazione creativa.
Succede questo, quando voglio comprendere qualcosa faccio una lista di domande in un taccuino e provo, nel tempo, a dare qualche risposta. Per trovare risposte faccio così: studio in silenzio, prendo un po’ di libri, leggo qualche articolo, vado su YouTube e cerco qualcuno in video che sappia più di me su quel tema, incontro anche persone dal vivo legate a un determinato aspetto che voglio approfondire. Rimango in ascolto, mi metto a orecchiare un po’ ciò che si muove attorno a me e provo a comprendere.
Attivo un processo di studio e ricerca, del tutto personale, che a volte si trasforma anche in progetto lavorativo, altre volte no. In quel periodo volevo comprendere questo, se la città era davvero un “palcoscenico” e una “palestra di convivenza”. Così nell’estate del 2016 invento un laboratorio di narrazione chiamato “Scrivere la città” e lo propongo al CSS Teatro Stabile d’Innovazione del Friuli Venezia Giulia che ha sede a Udine e che decidono di ospitare in uno dei teatri da loro gestiti.
La presentazione del laboratorio era questa:
Come osservare oggi gli spazi pubblici e i nostri luoghi? In questo laboratorio proveremo a raccontare l'umanità diffusa delle piazze, dei bar, delle vie e dei mercati. Scopriremo come la narrazione può generare domande, conflitti, scandalo, dibattito collettivo sulle questioni del vivere oggi le città. Una narrazione fatta di azioni, movimenti, musica, ritmi e parole generate dal “teatro del mondo reale” e dallo spazio pubblico come "palestra di convivenza" tra le persone.
E continuavo:
Autori come Perec ribaltano lo sguardo sulla città descrivendo ossessivamente i luoghi come piccoli frammenti di un puzzle. Altri come Calvino ne ricercano le radici, accostando le città ai sogni, costruite su desideri e paure. Solo all'ultimo, lontani dall'arte, si presentano le storie meticce e immateriali del vivere quotidiano, storie che non lasciano sempre traccia. Ogni partecipante condividerà il proprio punto di partenza sul tema "abitare la mia città". Il laboratorio, proprio per questo, è aperto a tutti gli interessati. Non è obbligatoria una esperienza artistica pregressa ma piuttosto una particolare predisposizione all'ascolto e all'osservazione.
Il laboratorio aveva attirato l’attenzione di diversi studenti di urbanistica e architettura, oltre a quella di tutte le persone interessate alla scrittura teatrale e alla narrazione. Una parte del laboratorio era in teatro e l’altra era in esplorazione urbana partendo da un testo di Perec chiamato “Tentativo di esaurimento di un luogo parigino”. In quel testo Perec raccontava i suoi tre giorni seduto in un tavolino di un bar in una piazza di Parigi. Scriveva il suo inventario delle cose che vedeva, come ad esempio: Data / Ora / Luogo / Tempo / Inventario delle cose visibili / Traiettorie / Colori / Posizioni del corpo / Ascolto di suoni vicini / Ascolto di suoi lontani.
Ecco, nella seconda parte del laboratorio i partecipanti individuavano uno spazio della città dove stare un po’ lì, osservavano di giorno in giorno cosa accadeva e provavano a trasformare quella strana esperienza d’osservazione in un racconto da condividere in teatro, una volta tornati tutti.
Perec, l’autore francese che più ha utilizzato la realtà (e quindi anche la città) come paesaggio narrativo, ci ha fatto da guida e devo ammettere che anche qui, con Precise Storie, continua a essere un piccolo faro. Parto da una domanda: “cosa vuol dire ricordare?”
Il principio è molto semplice: tentare di ritrovare un ricordo quasi dimenticato, inessenziale, banale, comune, se non a tutti, perlomeno a molti. (...) L’opera funziona come una specie di appello alla memoria, in quanto condivisa da tanti. È qualcosa di molto diverso dall’autobiografia, dall’esplorazione dei propri ricordi, importanti o derisori. È un lavoro che parte da una memoria comune, da una memoria collettiva. Ma la condizione perché scatti la “simpatia” del lettore, al limite sollecitato a ripetere per proprio conto l’esperienza, è paradossalmente questo personalissimo lavoro sui “micro-ricordi”. (...) Sono seduto alla scrivania, in un caffè, in un aeroporto o in treno; e cerco di ritrovare un avvenimento che non ha importanza, che sia banale, desueto e che, nel momento in cui lo ritrovo, scatenerà qualcosa. Può essere il titolo di una canzone, una trovata pubblicitaria, un nome a suo tempo tanto presente nelle cronache che sembrava acquistare una presenza quasi fisica, e che ora, nel ricordo, si rivela – come tutto il resto – semplice scansione di un tempo collettivo. Purché, appunto, lo si sottragga alla dimenticanza. (...) Basarsi su una descrizione della realtà spogliata da qualsiasi presunzione. Descrizione, inventario, registrazione di un tessuto connettivo nel quale si può riconoscere tutta una generazione, ma senza dubbio anche tutti coloro i quali, curiosi delle tracce che la vita lascia nella memoria altrui, si lasceranno prendere dal gioco sottile che consiste nel misurare lo scorrere del tempo secondo il ritmo, insieme personale e collettivo, del ricordo e dell’oblio.
Perec mi ricorda che ci sono molte cose in una città, e molte di queste possono essere descritte, raccontate o segnalate. Ed è proprio qui che lui suggerisce di descrivere tutto il resto: “quello che generalmente non si nota, quello che non si osserva, quello che non ha importanza: quello che succede quando non succede nulla, se non lo scorrere del tempo, delle persone, delle auto e delle nuvole”.
Bene, tu dirai. Da questo laboratorio che hai inventato cosa ti sei portato a casa? Mi sono portato a casa diversi aspetti serviti poi in altri percorsi negli anni a seguire. E di tutta questa ispirazione tematica vorrei condividere qualcosa che racconta la città come luogo di convivenza. O meglio, vorrei condividere qualcosa che racconta come le persone possono stare “tutte in un punto”.
La storia è di Italo Calvino, ed è stato l’ultimo spunto di questo laboratorio. Se vuoi prenderti ancora una manciata di minuti non lasciarmi, rimani ancora un attimo qui e leggi con calma. Prenditi un caffè o un bicchiere d’acqua, se ti sembra il caso, e poi torna per questo ultimo frammento:
TUTTO IN UN PUNTO
Estratto dalle Cosmicomiche di Italo CalvinoSi capisce che si stava tutti lì, fece il vecchio - e dove, altrimenti? Che ci potesse essere lo spazio, nessuno ancora lo sapeva. E il tempo, idem: cosa volete che ce ne facessimo, del tempo, stando lì pigiati come acciughe? Ho detto “pigiati come acciughe” tanto per usare una immagine letteraria: in realtà non c’era spazio nemmeno per pigiarci. Ogni punto d’ognuno di noi coincideva con ogni punto di ognuno degli altri in un punto unico che era quello in cui stavamo tutti.
Insomma, non ci davamo nemmeno fastidio, se non sotto l’aspetto del carattere, perché quando non c’è spazio, aver sempre tra i piedi un antipatico come il signor Pbert Pberd è la cosa più seccante.Quanti eravamo? Eh, non ho mai potuto rendermene conto nemmeno approssimativamente. Per contarsi, ci si deve staccare almeno un pochino uno dall’altro, invece occupavamo tutti quello stesso punto. Al contrario di quel che può sembrare, non era una situazione che favorisse la socievolezza; so che per esempio in altre epoche tra vicini ci si frequenta; lì invece, per il fatto che vicini si era tutti, non ci si diceva neppure buongiorno o buonasera. [...]
Il gran segreto della signora Ph(i)Nko è che non ha mai provocato gelosie tra noi. E neppure pettegolezzi. [...] Si stava così bene tutti insieme, così bene, che qualcosa di straordinario doveva pur accadere. Bastò che a un certo momento lei dicesse:
- Ragazzi, avessi un po’ di spazio, come mi piacerebbe farvi le tagliatelle! –E in quel momento tutti pensammo allo spazio che avrebbero occupato le tonde braccia di lei muovendosi avanti e indietro con il mattarello sulla sfoglia di pasta, il petto di lei calando sul gran mucchio di farina e uova che ingombrava il largo tagliere mentre le sue braccia impastavano impastavano, bianche e unte d’olio fin sopra al gomito; pensammo allo spazio che avrebbero occupato la farina, e il grano per fare la farina, e i campi per coltivare il grano, e le montagne da cui scendeva l’acqua per irrigare i campi, e i pascoli per le mandrie di vitelli che avrebbero dato la carne per il sugo; allo spazio che ci sarebbe voluto perché il Sole arrivasse con i suoi raggi a maturare il grano; allo spazio perché dalle nubi di gas stellari il Sole si condensasse e bruciasse; alle quantità di stelle e galassie e ammassi galattici in fuga nello spazio che ci sarebbero volute per tener sospesa ogni galassia ogni nebula ogni sole ogni pianeta, e nello stesso tempo del pensarlo questo spazio inarrestabilmente si formava, nello stesso tempo in cui la signora Ph(i)Nko pronunciava quelle parole: -...le tagliatelle, ve’, ragazzi!- il punto che conteneva lei e noi tutti s’espandeva in una raggiera di distanze d’anni-luce e secoli-luce e miliardi di millenni-luce, e noi sbattuti ai quattro angoli dell’universo (il signor Pbert Pberd fino a Pavia), e lei dissolta in non so quale specie d’energia luce calore, lei signora Ph(i)Nko, quella che in mezzo al chiuso nostro mondo meschino era stata capace d’uno slancio generoso, il primo,
“Ragazzi, che tagliatelle vi farei mangiare!”,
un vero slancio d’amore generale, dando inizio nello stesso momento al concetto di spazio, e allo spazio propriamente detto, e al tempo, e alla gravitazione universale, e all’universo gravitante, rendendo possibili miliardi di miliardi di soli, e di pianeti, e di campi di grano, e di signore Ph(i)Nko sparse per i continenti dei pianeti che impastano con le braccia unte e generose infarinate, e lei da quel momento perduta, e noi a rimpiangerla.
/// L’immagine che vedi all’inizio è stata scattata nel 2016 al Teatro San Giorgio di Udine. Avevamo liberato la platea dalle sedie per lavorare lì mentre il palco, che non vedi, era pieno di testi, fotografie, fogli sparsi e qualche thermos caldo.
/// Alcuni me lo hanno già scritto, rinnovo l’invito: in una delle prossime volte mi piacerebbe inviarti delle domande scritte e leggere io - grazie alle risposte - alcune tue storie, anche piccolissime. Potrebbe essere una piccola parentesi per qualche racconto collettivo di Precise storie. Basterà fare “rispondi” a questa mail (se stai leggendo questa storia dal tuo indirizzo mail) scrivendo “Va bene, ci sto!” e la tua risposta mi arriverà direttamente. Oppure se ti è più comodo, quando vorrai, basterà scrivermi a questo indirizzo: precisestorie@andreaciommiento.it.
/// Lo sai, se ti fa piacere c’è un modo per interagire con queste storie. Puoi cliccare qui sotto scegliendo tra i bottoni: “Like” (per dire che ti è piaciuto questo racconto), “Comment” (per scrivere tu un pensiero o qualcosa che pensi sia collegato a quello che hai letto) , “Share” (per condividere il link a qualche persona vicina a te via mail, via Facebook, Instagram, WhatsApp o Twitter). Fammi sapere se interagirai :-)