Afferrare tutta questa confusione
Nel 2017 le migrazioni in Europa accendevano conflitti tra le persone. A Torino, con il mio collettivo artistico, immaginiamo un progetto chiamato "Muri" tra incontri, laboratori ed eventi ...
Nel 2017 proseguiva l’esperienza di gestione dell’Ecomuseo Urbano nel quartiere Campidoglio a Torino. Si chiamava “ecomuseo” ma grazie a questa nuova riapertura era diventato un piccolo centro culturale per le comunità locali. Insieme al mio collettivo, CO.H, erano presenti diverse realtà e gruppi; sapere chi erano i nostri interlocutori aiutava a comprendere meglio le attività da proporre.
Così iniziamo a comprendere uno dei possibili filoni tematici per il calendario di quell’anno e - proprio in quel periodo - l’Italia viveva una trasformazione radicale dovuta alle nuove migrazioni (lo racconto bene in altre due storie: Il Sahara non è lontano da noi e Le cose fragili).
Di fatto i flussi migratori avevano riacceso dibattiti e conflitti tra le persone perché lo Straniero in arrivo metteva in crisi i propri valori di convivenza e dialogo tra le diverse identità. O semplicemente ci metteva in crisi perché temevamo di perdere quel poco che ci rimaneva. Paura, questo era il sentimento comune e più che comprensibile.
Intanto l’Unione Europea si impegnava a redigere fascicoli sulla situazione del nostro continente e prevedeva, già da tempo, l’arrivo costante di nuovi migranti non solo in Italia ma in tutti i paesi europei. Esattamente in quegli stessi mesi la Gran Bretagna voleva uscire dall’UE (Brexit) e i Paesi al confine iniziavano a costruire “muri”.
Io, di muri, ne avevo sentito parlare da sempre. Ero nato a Gorizia nel 1987, due anni prima della caduta di un altro muro, quello di Berlino. Gorizia, in piccolo, e Berlino, in grande, erano il simbolo di un confine e di una frontiera. Marcavano entrambe la fine di un “pianeta” e l’inizio di un altro: l’Occidente e l’Unione Sovietica. Marcavano due idee di mondo.
Muri, questo era diventato il titolo del nostro progetto e lo avevamo immaginato con incontri pubblici, laboratori di drammaturgia, eventi di comunità. Lo avevamo immaginato insieme alla Circoscrizione 4 della Città di Torino. E per avvicinarci a questo tema, e immaginarlo insieme, avevamo bisogno ancora una volta della poesia:
“Come sono permeabili le frontiere umane. Afferrare con un solo sguardo tutta questa confusione, su tutti i continenti! Come si può parlare di un qualche ordine, se non è nemmeno possibile scostare le stelle e sapere per chi brilla ciascuna?”
Wislawa Szymborska
Questo era un obiettivo progettuale, “afferrare con un solo sguardo tutta questa confusione”. Per scrivere queste Precise Storie sto andando a ritroso, anno per anno, mi chiedo cosa può interessare a te che leggi (oltre a me che scrivo) e insieme ai miei ricordi attivo un processo di ricerca in quello che ho lasciato nella cronologia della mia casella di posta. Per questo scrivo nel motore di ricerca della mia casella due parole: “2017” e “muri”. Ritrovo la scheda progetto che avevamo inviato agli Uffici comunali e leggo un piccolo estratto:
Oggi l’immigrazione è un fatto irreversibile. In questo momento storico di “migrazioni frammentate” il progetto vuole esplorare un atlante dei muri europei: Ungheria/Serbia (Subotica), Spagna/Marocco (Melilla) e Francia/Gran Bretagna (Calais). Veri e propri muri anti-migranti per lenire discordie e paure delle società europee in trasformazione. Il progetto MURI prevede la realizzazione di incontri di comunità, racconti video, laboratori di narrazione teatrale a partire da fatti di cronaca e autori di teatro, giornalismo e narrativa che raccontano le nuove frontiere.
Così iniziamo a pensare chi e cosa tenere dentro questo percorso; e lo faccio insieme ad altre partner in crime come Marta, Silvia, Federica, Giulia e Giuseppe. Lo so, “partner in crime” è un termine inglese, e tu dirai basta inglesismi, ma mi sembra una definizione simpatica per intendere le persone più strette con cui collaboro...
Pensiamo a qualche ospite, come per esempio Ana Irazabal, una giornalista spagnola che lavora per EITB Basque Televisione e la RAI, che ha realizzato un reportage chiamato “I cacciatori di migranti”. Insieme a lei scopriamo il suo lavoro quotidiano e poi vediamo il suo video-reportage: la storia di un sindaco in Ungheria che ha formato un gruppo di “cacciatori” per impedire alle persone migranti di entrare nel Paese. E poi incontriamo anche gli Agrupación Señor Serrano, vincitori del Leone d’Argento per l’Innovazione 2015 alla Biennale Teatro di Venezia, e ci facciamo raccontare il loro nuovo progetto di spettacolo chiamato “Birdie” legato al tema delle migrazioni partendo dal muro di Ceuta/Melilla tra Spagna e Marocco.
Insieme a questi incontri realizziamo anche qualche laboratorio di drammaturgia facendo scoprire ai partecipanti alcune storie, come per esempio quelle di Biljana Srbljanovic, autrice che ha raccontato l’isolamento serbo e diverse storie di migrazione. Ti scrivo alcuni titoli: “Trilogia di Belgrado”, e altri testi come “Supermarket” e “Giochi di famiglia”.
Grazie a questo progetto ho scoperto molte cose, la prima è che fare progettazione artistica - lavorare alla creazione di un percorso inventando laboratori, eventi dal vivo e incontri con ospiti - può essere un modo efficace per comprendere quello che viviamo ogni giorno. La seconda è che un muro è sempre il simbolo di una paura. I muri ci servono per non fare entrare qualcuno, o al contrario, per non farci uscire con la scusa di tenerci al sicuro. Che attraversarli, quei muri, sembra a volte impossibile. La terza cosa, l’ultima, è che i muri sono fatti di pietra. La stessa pietra che, forse in altre epoche, forse, serviva a costruire ponti.
Va bene, non so quanto tempo ti ho rubato, però mi piacerebbe chiudere con un racconto che abbiamo condiviso in uno degli ultimi nostri eventi legati a questo progetto. Era il 25 aprile del 2017 e avevamo concluso il progetto con una serie di ospiti legati ad ANED Torino, ANPI Martini del Martinetto, Ecoborgo Campidoglio e Associazione Antonio Gramsci. Insieme a loro avevamo trovato qualche storia per chi era lì con noi.
Il racconto che vorrei lasciarti è stato scritto da una scrittrice polacca, Olga Tokarczuk. Si chiama “L’uomo che non amava il suo lavoro” e mi sembra che possa essere una buona conclusione per oggi. Ecco qui:
C’era un uomo che non amava affatto il proprio lavoro. Non amava il proprio lavoro perché gli sembrava insensato. Non lo portava da nessuna parte, non gli fruttava nessun guadagno concreto, non gli procurava gioia, non ne cavava nulla. Consisteva nel girare per le montagne e cercare tutto quanto apparisse sospetto. In questo consisteva il suo lavoro, nel pattugliare la frontiera. Era una guardia di confine.
Nonostante tutto, nel corso degli anni aveva cercato di eseguire scrupolosamente il proprio lavoro. Con lui c’era sempre un cane, un pastore tedesco di nome Bruno, una creatura malinconica e piena di saggezza innata.
Lui e Bruno si intendevano bene, mentre perlustravano la striscia di confine. Molte volte la guardia era stata testimone di come gli animali se ne infischiassero della frontiera che lui sorvegliava con tanto zelo. I caprioli e le volpi ignoravano completamente i paletti bianchi e gli emblemi degli Stati.
A volte incontrava anche delle persone. Cercatori di funghi smarriti, boscaioli che avevano bevuto troppo oppure persone che cercavano di contrabbandare varie cose attraverso le frontiere. Certa gente andava disciplinata e punita. Perciò la guardia aveva l’obbligo di chiedere i documenti agli intrusi, e poi denunciare il reato e – se necessario – arrestare i perturbatori dell’ordine.
Ultimamente, alle guardie di confine avevano fatto un corso su altri individui pericolosi. Erano coloro che erano scappati dal proprio paese e ora tentavano di entrare in Europa illegalmente e senza permesso.
Un giorno di ottobre la guardia e il cane si stavano arrampicando su per la striscia di confine. Proprio allora vide quelle persone. Sedevano a terra in silenzio, forse sonnecchiavano. Solo la donna, che allattava un bambino, si dondolava avanti e indietro. Li abbracciò svelto con lo sguardo: erano sei, due uomini, una donna e tre bambini. Sembravano stanchi, i loro visi apparivano scuri, come se fossero appena spuntati dal buio. Avevano zaini miseri e vestiti sciupati. Alla guardia ormai era chiaro – aveva scoperto degli irregolari, emigrati o immigrati clandestini, fuggiaschi, vagabondi che avevano appena attraversato la frontiera.
Secondo le istruzioni a lui ben note, adesso avrebbe dovuto informare la base e far venire gli altri; sarebbero arrivati su di un grande fuoristrada Mercedes e avrebbero portato i delinquenti al posto di guardia. Sarebbero stati sottoposti a interrogatori e tenuti sotto chiave. Forse sarebbe servito un interprete. Poi sarebbe sicuramente venuto fuori che non avevano passaporto né visto, nulla che consentisse loro di fermarsi là. Alla fine avrebbe avuto luogo un processo, sarebbero stati riconosciuti colpevoli di attraversamento illegale della frontiera e rispediti da dov’erano venuti. Succede sempre così, quando la gente infrange la legge.
Laggiù dov’erano seduti era piuttosto scuro. Uno degli uomini si tirò il cappuccio sulla testa e provò a leggere qualcosa su una carta che aveva spiegato a terra. La guardia si mosse verso di loro. Lo guardarono spaventati. Avvertiva la loro tensione, erano come molle pronte a scattare con un’enorme forza nell’oscurità del bosco. Quando si accosciò davanti a loro e li guardò amichevolmente, la donna con il bambino gli rispose per un lungo istante con un sorriso incerto. Disse loro di non avere paura perché voleva aiutarli, ed era certo che lo avessero capito.
“Dove siamo?” gli chiesero in una lingua che non conosceva, ma capì ogni parola.
Esitò ancora un momento, ma in sostanza non c’era niente a cui pensare. Niente su cui occorresse riflettere. Avevano bisogno di aiuto. Gettò l’occhio sulla loro carta misera, imprecisa, e capì dov’erano diretti. Supponeva che là ci sarebbe stato ad aspettarli qualcuno che li avrebbe presi e accompagnati nel paese sognato, dove sarebbero stati al sicuro, sazi e, forse, felici. Che cosa c’era di male? Che attraversavano senza permesso una striscia di terra arata?
Prese la carta e fece loro segno con un gesto di seguirlo. Lo guardarono con diffidenza. Poi si avviarono dietro di lui. Bruno li precedeva. Scesero giù, accanto al ruscello, per un sentiero battuto dagli animali, evitando così tutte le possibili sentinelle. Dopo qualche ora scesero sulla strada e la guardia li lasciò in un parcheggio che sulla loro carta era segnato con una crocetta rossa. Vide una macchina parcheggiata sul sentiero del bosco. Per fortuna qualcuno li aspettava. Gli occhi di uno degli uomini si riempirono di lacrime e le asciugò con la manica. La guardia fece con la mano un gesto che riteneva comprensibile in tutto il mondo – alzò il pollice in alto e rivolse un largo sorriso, quindi fece dietrofront e tornò al suo giro di pattuglia.
Rientrando a passo veloce con Bruno che trotterellava al suo fianco, la guardia si sentiva il cuore leggero e fino a quel momento non aveva ancora mai avuto l’impressione così netta di poter amare il proprio lavoro.
/// L’immagine che vedi all’inizio è stata scattata nel 2017 all’Ecomuseo Urbano di Via Medici a Torino, nel quartiere Campidoglio. Quella serata si chiamava “Narrazioni all femminile” e come vedi gli Spettatori erano davvero tutti in un punto, “pigiati come sardine”.
/// Alcuni me lo hanno già scritto, rinnovo l’invito perché mi piacerebbe costruire qualcosa insieme con te: se vorrai in una delle prossime volte mi piacerebbe inviarti delle domande scritte e leggere io - grazie alle risposte - alcune tue storie, anche piccolissime. Potrebbe essere una piccola parentesi per qualche racconto collettivo di Precise storie. Basterà fare “rispondi” a questa mail (se stai leggendo questa storia dal tuo indirizzo mail) scrivendo “Va bene, ci sto!” e la tua risposta mi arriverà direttamente. Oppure se ti è più comodo, quando vorrai, basterà scrivermi a questo indirizzo: precisestorie@andreaciommiento.it.
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